Sant’Agostino risana gli sciancati
Autore | Jacopo Robusti, detto Tintoretto |
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Periodo | (Venezia 1518 - 1594) |
Datazione | 1547 - 1549 |
Supporto | Tela, 255x174,5 |
Inventario | A 74 |
Autore della scheda | Elena Filippi |
È la luce l’indiscussa protagonista di questa grande pala, un tempo collocata nella cappella Godi (poi Porto Godi) nella vicentina chiesa di San Michele, dedicata a sant’Agostino e distrutta nel 1812.
Tintoretto sceglie di raffigurare, in quest’opera, un episodio della vita del santo tratto da un passo poco conosciuto della Legenda Aurea. Sant’Agostino, rappresentato con la mitra e il pastorale - attributi riferiti alla sua carica di vescovo -, appare, scendendo improvvisamente dal cielo, ad una folla di sciancati che, piegati a terra e prostrati dal peso della malattia, attendono la miracolosa guarigione. Le figure pesanti e corporee dei malati e dei mendicanti assistono al prodigioso evento quasi abbagliate dalla luce intensa e innaturale emanata da una vorticosa nube che, avvolgendo il santo, diviene quasi un tutt’uno con il suo manto purpureo. Allontanandosi verso lo sfondo, chiuso con sapienza teatrale dalla facciata di un inconsistente edificio religioso, i corpi dei malati, contorti dalla fatica e dalla sofferenza, divengono sempre più diafani e impalpabili proprio per effetto della potente luce, che rende sfuocata la percezione visiva.
Il giovane artista - a queste date circa trentenne - riesce dunque a creare, dipingendo quasi a monocromo con qualche velatura di colore, un’opera che si rivela essere una delle più felici rappresentazioni del “senso drammatico della luce nella pittura veneta, in una ricerca di effetti e colori nuovi” (Villa).
Cartellini
1954 N. 8071; su carta bianca, a stampa con inchiostro nero PROF. GIUS. GIOVANNI PEDROCCO / Restauratore di dipinti / antichi e moderni / Venezia Mestre
Provenienza
Vicenza, chiesa di San Michele; legato Paolina Porto Godi, Vicenza 1826
Restauri
1912, Franco Steffanoni (MCVi, Museo, Verbali, reg. 2, verbale del 1912, feb. 18: “il direttore reggente presenta un preventivo del prof. Steffanoni per il restauro proposto dei quadri i quali dimostrano maggiore urgenza di risarcimento, […] Sant’Agostino fra gli appestati (Tintoretto) lire 150. Per ragioni di spesa viene deliberato di limitare i restauri allo Sbarco della Regina Cornaro, Sant’Agostino del Tintoretto e Immacolata di Tiepolo”. 24 marzo 1912: “Si dispone di sospendere i restauri delle tele del Tintoretto, G.B. Tiepolo e Aliense, limitandosi ai lavori di ripassatura che si dimostrino necessari, e nei quali si farà presente col rimborso delle anticipazioni fatte in corso di lavoro dal Museo al prof. Steffanoni”); 1975, Giuseppe Giovanni Pedrocco; 2007, Renza Clochiatti
Inventari
1826: 12. Camera a mattina sopra il Corso. Sant’Agostino che sana gli appestati. Giacomo Robusti detto il Tintoretto. Lire 345; 1831: 10. Residenza attuale del podestà. Tintoretto. Sant’Agostino che sana gli appestati. Galleria Porto, n. 4321 del 1826, 12; [post1834]: 33. Sant’Agostino che sana gli impestati, 155; 1854: 155. 2.70. 1.85. Tintoretto. Sant’Agostino che sana gli appestati, pala; [1873]: Sala, parete della porta principale della sala, 42. Tintoretto Jacopo nato 1512, morto 1594. Sant’Agostino che sana gli appestati; 1873a: c. 1, 42. Jacopo Tintoretto nato 1512, morto 1594. Sant’Agostino che sana gli appestati; 1902: c. 11, 55 (48). 48. Sant’Agostino. Tela ad olio. Alto 2.55, largo 1.70. Jacopo Tintoretto. Un po’ guasta. Guasta. Testamento contessa Carolina Porto. Non finito e ritoccato; 1907: c. 6, 48 (48). Jacopo Robusti (chiamato Tintoretto) figlio di Giovanni Battista tintore, nacque in Venezia nel 1519 e vi morì nel 1594. Ebbe diversi figli: Giambattista, Marco, Marietta, Ottavia, Altura e Perina. Sant’Agostino [aggiunto a matita che risana gli appestati]. Tela, 2.55x1.70 (non finito e ritoccato); 1908: 48 (74). Jacopo Tintoretto. Sant’Agostino che risana gli appestati (non finito). Nel 1908 si trova in sala. Nel 1873 si trova in sala al n. 42. Nel catalogo a stampa del Magrini dell’anno 1855 si trova in sala al n. 5. Nell’inventario di consegna della Pinacoteca al Museo dell’anno 1854 si trova indicato così: n. 155, Tintoretto, Sant’Agostino che sana gli appestati, pala, 2.70x1.85. Pervenne alla Pinacoteca nel 1826 per legato Paolina Porto Godi col n. 12 e le indicazioni: il Tintoretto, Sant’Agostino che sana gli appestati; 1910-1912: 74 (80). Numerazione vecchia: 48 numerazione Commissione d’inchiesta 1908; 55 catalogo 1902; 42 catalogo 1873; 5 Magrini catalogo a stampa 1855; 155 inventario di consegna 1854; 12 n. del legato 1826; 74 catalogo 1912; 74 catalogo 1940; 74 inventario 1950. Provenienza: legato Paolina Porto Godi 1826. Collocazione: sala dei veneti dei secoli XVI e XVII. Forma e incorniciatura: rettangolare con cornice dorata. Dimensioni: alto m 2.55, largo m 1.70; inventario 1950 2.55x1.75. Materia e colore: tela dipinta ad olio. Descrizione: Sant’Agostino che risana gli appestati. Autore: Jacopo Tintoretto; catalogo 1912 Jacopo Tintoretto; catalogo 1940 Jacopo Tintoretto (la composizione e le figure dimostrano chiaramente la paternità di questo lavoro, ma nell’esecuzione sembra che il pittore si sia servito dell’aiuto dei suoi discepoli, nuoce all’effetto pittorico del quadro l’eccessivo impiego di color azzurro, a meno che ciò non dipenda da un restauro troppo energico); inventario 1950 Jacopo Tintoretto; prof. Fiocco (comunicazione orale 16.7.58) Tintoretto originale. Bibliografia: B. Berenson, The venetian painters of the Renaissance, New York 1906.
Descrizione tecnica
La pala pervenne al Museo nel 1826 per legato Paolina Porto Godi Pigafetta Bissari (Rizzato, 1998-1999, pp. 20, 90), ma in precedenza si trovava presso la cappella Godi, poi Porto Godi, nella chiesa di San Michele, dedicata a Sant’Agostino, secolarizzata nel 1810 e distrutta nel 1812. Il soggetto è iconograficamente piuttosto desueto rispetto alle memorie artistiche agostiniane (ripercorse in Dania Funari, 1988), che immortalano solitamente il santo con mitra e pastorale, attributi riferiti al suo ufficio episcopale, oppure con il saio nero e la cinta di cuoio, che individuano il monaco agostiniano. Spesso è ricordato come dottore della Chiesa, seduto perciò a uno scrittoio, davanti a un libro aperto. Altrove la sua raffigurazione riprende un famoso passo delle Confessioni, in cui si rivolge a Gesù dicendo: “ci hai trafitto il cuore con il Tuo Amore”. Ciò spiega la sua rappresentazione come santo cardioforo. Dal XV secolo si diffonde anche la sua immagine legata all’episodio leggendario, per cui un angelo gli sarebbe apparso svelandogli che il tentativo di comprendere il mistero della Trinità è vano quanto quello di raccogliere tutto il mare in una buca scavata sulla spiaggia. Nessuno di questi momenti tuttavia viene scelto per la pala Godi e la sua difficile lettura ha creato non poche difficoltà interpretative alla critica. La corretta decifrazione del soggetto si deve a Middeldorf (1944, pp. 95-96), che rivisita l’ambientazione tintorettiana alla luce di un passo poco noto della Legenda Aurea. Un folto gruppo di malati - chi si trascinava a terra, curvo su dei carrelli, chi si appoggiava a stampelle e bastoni; altri, ciechi, si muovevano dietro alle loro guide di fortuna - in cammino verso Roma (nel 912 d.C.), ebbe una visione del Santo, rivestito delle insegne pontificali, che si fece loro incontro uscendo da una chiesa dedicata ai Santi Cosma e Damiano, rivolgendosi ai derelitti con un cenno di saluto (Jacopo da Varazze, 1995, p. 701; 2000, p. 124). Leggendo questo passo, si può intendere perché per molto tempo la storiografia descrisse il soggetto del quadro come Sant’Agostino risana gli appestati. L’opera è collocabile nel momento di exploit pubblico del Maestro, sia per ragioni stilistiche, sia per motivi legati al contesto della committenza, come si dirà. E quindi, subito dopo il Miracolo dello schiavo (1548) e grosso modo alla stessa altezza cronologica del Trafugamento del corpo di San Marco (Venezia, Gall. dell’Accademia) e del San Rocco risana gli appestati (1549, Venezia, chiesa omonima), soprattutto per quel che riguarda l’analogia con i tipi umani scelti ad organizzare lo spazio scenico, dalla donna in primo piano sulla destra, in solido aiuto al misero prostrato dalla fatica e dai guai fisici (Pilo, 1994, pp.136-137; Filippi, 1996, p. 167), ai corpi degli sciancati che ricordano da vicino le torsioni di figure presenti nei summenzionati dipinti (Rossi, 1982, p. 158; Weddigen 2000, pp. 32-57). Dal punto di vista della materia pittorica non molto ci è dato osservare, a causa delle ridipinture che nel tempo hanno procurato all’idea originaria di Jacopo non poche incomprensioni e anzi un generale tradimento (restauro Pedrocco, 1975), poiché, si suppone, il lavoro tintorettiano tendeva originariamente alla monocromia con qualche velatura di colore (Magagnato, 1953, p. 176), come ancora si può notare nelle figurine sullo sfondo e nell’esecuzione dell’edificio che chiude la prospettiva ad imbuto. Il tempio così realizzato fece pensare a Forssman (1967, p. 118) alle Regole generali di Sebastiano Serlio, pubblicate a Venezia nel 1537, in particolare al Libro IV (p. LIIII), laddove è senz’altro più calzante il riferimento al Libro Vdelli templi del bolognese (Weddigen, 1970, pp. 90, 92 e nota 22; Rossi, 1982, p. 159; Pilo 1991, p. 116; Frank, 1996, p. 235): Tintoretto risolve il contenimento dello spazio chiudendo sul fondo il vano con il prospetto di un edificio religioso a due ordini raccordati da due volute, cupolato e affiancato da due torri campanarie a quattro piani finestrati e coronate da cuspidi. Nel suo complesso, il tipo del tempio qui proposto dal pittore trova diretto riscontro nel modello serliano (f. 215v) dell’edizione parigina del 1547, prima che venisse stampato anche a Venezia da Nicolini nel 1551 (Bruschi, 1989, p. 173). Le diverse edizioni del trattato di Serlio consentono infatti di individuare un adeguato assestamento cronologico per questo lavoro sprovvisto di sicura datazione, se già non bastassero gli indizi stilistici, che riecheggiano, per parte amplificandoli, momenti della maniera di matrice tosco-romana, tra Michelangelo e Salviati, passati al vaglio dello Schiavone e del Sansovino (Pallucchini, 1946, p. 143 e 1950, p. 45, pp. 126-127; Barbieri, 1962, II, pp. 243-244; Ballarin, 1982, p. 100; Rossi 1982, p. 158; Pilo, 1994, p. 136; Furlan, 1996, pp. 19-25; Rosand, 1996, pp. 133-137; Rearick, 1996, pp. 173-181), e inoltre un’originale sapienza teatrale, che già costituisce cifra connotante il percorso tintorettiano (Van Khanh, 1995, passim). Si oscilla da una sistemazione tarda intorno agli anni 1575-1585 (von der Bercken, 1942, p. 133), ricusata oramai dalla comunità scientifica, al suggerimento di Forssman (1967, p. 118) di ancorare la pala al quinto decennio; quindi all’affermazione secondo cui fa testo - quale termine post quem - l’edizione veneziana del 1551 (Weddigen, 1970, p. 92), ovvero, e per contro, la retrodatazione voluta da Pilo (1991, p. 117), che vedrebbe meglio una data “non molto oltre il 1547, come anche comprova l’affinità di soluzioni pittoriche rispetto alle […] redazioni della Lavanda dei piedi di Newcastle upon Tyne e dell’Escorial, il Trafugamento del corpo di san Marco dal rogo del martirio a Bruxelles [ora al Prado] e la stessa Cena di San Marcuola che reca un punto di riferimento certo per la cronologia: 1547”. Se si può senz’altro concordare sulla constatazione che Jacopo tende nel periodo giovanile ad assumere i modelli del Serlio “volta a volta, quasi per l’immediato, a breve distanza dalla pubblicazione” (Pilo, 1994, p. 137), non pare plausibile tuttavia spostare un’ipotesi di datazione dall’ancoraggio al torno d’anni 1549-1550, già fissato dalla critica a più riprese (cfr. Rossi 1982, pp. 158-159), e tanto più convince, in mancanza di notizie certe - le fonti d’archivio, come si è appurato, sono inopinatamente avare in tal senso - l’idea che la commissione a Tintoretto cada nel momento in cui i figli di Enrico Antonio Godi, che dispone puntigliosamente degli interventi nella cappella di patronato e specialmente del suo monumento sepolcrale (ASVi, testamento di Enrico Antonio Godi, notaio Bortolo Carpi, 7 nov. 1536, b. 5624), ma nulla dice intorno a un’eventuale pala d’altare, decidono per una risistemazione della cappella di famiglia, proprio sullo scorcio del quinto decennio (Mantese, 1966-1967, pp. 247-248). Su altri elementi dell’opera e della sua committenza si osserva quanto segue: anzitutto, la storia della pala Godi di Tintoretto è ancora avvolta, almeno in parte, nel mistero. Non v’è alcun membro della famiglia che porti il nome del santo, cui la cappella è dedicata, benché ciò non significhi molto; e comunque, ci si è spinti a indagare i volti dei personaggi sulla scena, onde ricavarne una qualche indicazione utile all’ipotetica opzione che si possa scorgere un ritratto di un Godi, oppure si possa parlare di una sorta di ex voto (Bucci, 1995, pp. 30-32). Di tutta una serie di nomi individuati, appartenenti al ramo dei “Godini”, alcuni sono risolutamente da espungere, per ragioni storico-documentarie. I figli di Enrico Antonio Godi - ma principalmente Girolamo - s’interessano della risistemazione della cappella di famiglia (1546-1550), offrendo l’appalto alla bottega di Giovanni da Pedemuro, che vedeva la collaborazione del giovane e promettente Palladio (Puppi 1999, p. 237), il quale si stava occupando anche dei lavori presso la villa dei Godi a Lugo. La committenza Godi rivela una propensione per testi architettonici innovativi, in linea con la sensibilità del giovane Robusti, come suggeriscono le forme del portale dipinto da Jacopo nella pala, modificate rispetto al suddetto modello serliano, e che invece rievocano da presso quello lapideo della chiesa di Santa Maria dei Servi in Vicenza (1531), pagato da Francesco Godi agli stessi lapicidi di Pedemuro. Rimane assai problematico parlare anche della collocazione dell’opera, almeno fra sette e ottocento, poiché se è vero che la storiografia locale ancora in quegli anni ne fa esplicita menzione (Bertotti-Scamozzi, 1761, p. 25; Barbarano, 1761-1762, p. 210; Baldarini, 1779, I, p. 86), negli inventari della chiesa (Archivio San Michele, Libro degli inventari, 1727, b. 189) nel mentre si nominano maestri più o meno celebrati, con la descrizione dei loro dipinti, per la cappella Godi il riferimento è a un laconico “quadro nella Cappella di S. Agostin”, cui va aggiunto un altro di formato a mezza luna; il che può significare invero che l’estensore dell’inventario non avesse familiarità col Nostro, oppure che all’epoca, per qualche ragione e prima della secolarizzazione della chiesa (1810), il dipinto di Tintoretto non fosse più in loco. Ne rinveniamo sicure nuove tracce solo nell’inventario redatto da Leonardo Trissino nel 1820.
Una copia, di misure un po’ più ridotte (cm. 186x108), è citata nell’inventario della quadreria del cardinale Leopoldo de’ Medici (ASF, Guardaroba 826, 1675, c. 58, n. 64, con attribuzione a Jacopo Robusti) ed ora patrimonio della Galleria degli Uffizi (n. 914). Rispetto all’originale vicentino, la critica ritiene plausibile il solo intervento della bottega (Rossi, 1982, p. 159), senza escludere però un qualche contributo di Domenico Tintoretto (Marinelli, 1987, p. 63).
Bibliografia
Castellini¹, ms. 1628 circa, c. 248; Ridolfi, 1648, II, p. 49; Boschini, 1676, pp. 47-48; Barbarano, 1761, p. 210; Bertotti-Scamozzi, 1761, p. 25; Buffetti, 1779, I, p. 86; Bertotti-Scamozzi, 1780, p. 23; id., 1804, p. 21; Ciscato, 1870, p. 89, n. 5; Castellini, 1885, p. 105; Berenson, 1894, p. 122; Thode, 1901, p. 124; Berenson, 1911, p. 140; Phillips, 1911, p. 165; Soulier, 1911, p. 88; Ongaro, 1912, p. 42; Frizzoni, 1913, p. 190, n. 1; Osmaston, 1915, II, p. 212 (nega l’autografia); Bortolan-Rumor, 1919, p. 151; Von Bercken-Mayer, 1923, I, p. 232; Pittaluga, 1925, p. 287; Venturi A.², 1929, p. 619; Corna, 1930, p. XXVI; Berenson, 1932, p. 567; Peronato¹, 1933, pp. 17, 69; Arslan, 1934, p. 9 (J. Tintoretto con aiuti), p. 39, n. 25; Berenson, 1936, p. 487; Masterworks…, 1939, p. 78, cat. 54 (Jacopo Tintoretto con aiuti, prima del 1550); Fasolo, 1940, pp. 101-102, n. 74; Von Bercken, 1942, p. 133, n. 550; Middeldorf, 1944, pp. 195-196; Pallucchini, 1944, II, p. XV; Pallucchini¹, in I Capolavori…, 1946, p. 133, cat. 231; Pallucchini², in I Capolavori…, 1946, pp. 142-144, cat. 231; Podestà, 1946, pp. 164-165 (le alterazioni cromatiche sembrerebbero volontà dello stesso Tintoretto); Pallucchini, in Trésors de l’Art…, 1947, pp. 37-38, cat. 50; Tietze, 1948, p. 378; Arslan, 1949, p. 72; Magagnato¹, 1949, p. 103; Pallucchini, 1950, p. 45, pp. 126-127, p. 161, n. 113 (riporta i pareri di Pedrocco e Pelliccioli sullo stato di conservazione del dipinto); Barbieri, 1952, p. 10; Magagnato, 1953, p. 176 (ipotizza la natura di monocromo per questo dipinto, “con appena qualche velatura di colore prossimo al gusto di un Pontormo”); Barbieri², 1954, p. 175; Valsecchi¹, 1954, p. 172; Barbieri-Magagnato, 1956, p. 176; Salvini, 1956, p. 87; Berenson, 1957, I, p. 182; Id., 1958, I, p. 187; De Logu, 1958, p. 120; La peinture…, 1959, cat. 50; Stefani, 1962; Barbieri, 1962, II, pp. 242-246; Pallucchini, 1965, coll. 937-958; Mantese, 1966-1967, pp. 247-248; Forssman, 1967, p. 118; Pallucchini A., 1969, pp. 12, 30; Weddigen, 1970, pp. 90, 92 nota 22; Pallucchini, 1975, pp. 101-102; Carpeggiani, 1976, p. 273; De Vecchi-Bernari, 19782, p. 93, n. 74; Ballarin An., 1982, p. 100; Pallucchini-Rossi, 1982, pp. 158-159; Marinelli, in Proposte e…, 1987; Weddigen, 1988, p. 95; Pilo, 1991, p. 116; id., 1994-1995, pp. 136-137; Tartuferi, in Jacopo Tintoretto…, 1994, p. 88, n. 30; Barbieri, 1995, p. 78; Bucci, 1995, pp. 30-32; Furlan, 1996, pp. 19-25; Rosand, 1996, pp. 133-137; Rearick, 1996, pp. 173-181; Filippi, 1996, p. 167; Frank, 1996, p. 235; Rizzato, 1998-1999, pp. 20, 90; Filippi, 1999, p. 541; Weddigen, 2000, pp. 32-37.
Esposizioni
San Francisco, 1939, cat. 54; Venezia, 1946, cat. 231; Lausanne, 1959, cat. 50; Firenze, 1994, p. 88, cat. 30. Museo Nacional del Prado, Madrid 29gennaio-13 maggio 2007.