La Vergine immacolata con il Bambino, due angeli e due donatori
Autore | Francesco Zaganelli Bernardino Zaganelli (Cotignola, 1460/1470 - ante 1513) |
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Periodo | (Cotignola, 1460/1470 - 1532) e |
Supporto | Tela (trasporto da tavola), 128,8x77 |
Inventario | A 195 |
Autore della scheda | Mauro Lucco |
Provenienza
Vicenza, Chiesa dei Carmini; dono Antonio Gerolin, Vicenza 1866 (ASCVi, Comune di Vicenza, VIII, Museo, b. 5, fasc. “1866”, lettera del 1866, ott. 13 con cui il canonico Pietro Marasca, presidente della Commissione alle cose patrie, comunica alla Congregazione municipale di Vicenza che è pervenuta dalla Fabbriceria della chiesa dei Carmini la “tavola peruginesca” acquistata da Antonio Gerolin, per farne dono al Museo civico; MCVi, Museo, Registri di protocollo, reg. 1, prot. n. 553 del 1866, set. 26 con cui la Fabbriceria di Santa Croce propone al Museo la vendita “di un quadro antico giudicato del Perugino”, il successivo 4 ottobre Antonio Gerolin si offre di acquistare il quadro per donarlo al Museo, la proposta viene accettata il 10 ottobre e il 13 si comunica alla Congregazione municipale che la Fabbriceria del Carmine ha effettuato la consegna “della tavola peruginesca donata dal signor Gerolin al Museo”).Restauri
1909, Franco Steffanoni; 1957, Giuseppe Giovanni Pedrocco; 1987, Paolo BacchinInventari
1873a: c. 3, 38. Dal Perugino [corretto su Perugino copia attribuita]. Maria vergine col Bambino; 1902: c. 54, 251 (242). 244. Maria vergine con Putto e gloria di angeli e cherubini. Tavola. Alto 1.25, largo 0.70. Attribuito a Giovanni Speranza. Molto guasto e tarlato. Non buona. Dono del signor Antonio Gerolin. Di urgente riparazione. Le figure a teste molto lunghe ed i piedi molto grandi rispetto all’estremità, lasciano molto a dubitare sull’attribuzione; 1907: c. 27, 244 (242). Attribuito a Giovanni Speranza. Maria vergine con Putto e gloria d’angeli e cherubini. Tavola, 1.25x0.70. Dono del signor Antonio Gerolin. Le figure a teste molto lunghe ed i piedi molto grandi rispetto all’estremità, lasciano a dubitare sull’attribuzione; 1908: 242 (195). Attribuito a Giovanni Speranza. Maria vergine con Putto e gloria di angeli e cherubini (tavola, 1.25x0.70). Nel 1908 si trova nella terza stanza a sinistra; 1910-1912: 195 (11). Numerazione vecchia: 242 numerazione della Commissione d’inchiesta 1908; 252 catalogo 1902; 195 catalogo 1912; 195 catalogo 1940; 195 inventario 1950. Provenienza: dono del signor Antonio Gerolin. Collocazione: sala II dei vicentini. Forma e incorniciatura: telaio rettangolare con cornice dorata e dipinto centinato. Dimensioni: 1.25x0.70; inventario 1950 1.29x0.77. Materia e colore: dipinto su tela (già su tavola) a tempera. Conservazione e restauri: trasportato dalla tavola su tela da Franco Steffanoni 1909; 1957 restauro prof. Pedrocco, asportazione dei restauri alterati e rifacimento dei medesimi, intonato. Descrizione: Madonna col Bambino in gloria con angeli e cherubini. Autore: attribuito a Giovanni Speranza; Francesco e Bernardino Zaganelli in Cotignola (C. Ricci 1911); Zaganelli certamente (A. Venturi 1912); catalogo 1912 Francesco e Bernardino Zaganelli; catalogo 1940 Francesco e Bernardino Zaganelli, (il dipinto, frammento di un quadro più grande, era attribuito al pittore vicentino Giovanni Speranza, ma Corrado Ricci lo assegnò giustamente ai fratelli da Cotignola, ritenendolo lavoro dei primi anni del secolo XVI); inventario 1950 Francesco e Bernardino Zaganelli.Descrizione tecnica
Il 26 settembre 1866 il dipinto fu proposto per l’acquisto al Museo dalla Fabbriceria della chiesa di Santa Croce, che intendeva alienarlo; il 4 ottobre Antonio Gerolin si offriva di comperarlo per girarlo in dono al Museo, e questo avveniva difatto 9 giorni dopo. Era allora attribuito al Perugino, un riferimento mutato, attorno al cambio del secolo, in quello a Giovanni Speranza.
Il dipinto non è in condizioni di conservazione ottimali; nel 1909 fu trasportato da tavola su tela da Franco Steffanoni, e forse in quell’occasione (o forse qualche tempo prima) fu decurtato ai quattro lati, in particolare in basso, dove le teste dei due donatori sono tagliate all’altezza degli occhi. Fu di nuovo restaurato nel 1957 e, più di recente, nel 1987.
L’opera è sempre stata letta (con le uniche eccezioni di Berenson, che la ritiene una Assunta, e di Andreina Ballarin, 1982, che la interpreta come una Immacolata Concezione) come una Madonna in gloria; in realtà, il fatto che i suoi piedi appoggino sulla mezzaluna, che l’angelo di destra porti il giglio, allusivo alla verginità e alla castità (Levi D’Ancona, 1977, pp. 210-211), assieme ad una melagrana, simbolo ancora della castità della Vergine, e assieme del sangue di Cristo e della Chiesa (Levi D’Ancona, 1977, p. 315), mentre l’altro angelo offre delle rose, ulteriore simbolo della verginità di Maria, rosa senza spine (Levi D’Ancona, 1977, pp. 332-334), dà ragione alla Ballarin sul fatto che si tratti piuttosto di una rappresentazione allegorica dell’Immacolata Concezione di Maria, un tema che, per sollecitazione francescana, alla fine del quattrocento iniziava ad avere qualche successo (Warner, 1976, ed. 1985, pp. 236-243), ed a stabilizzarsi appunto in questa iconografia della Vergine sopra la luna.
Mi chiedo allora se l’opera non sia da identificare con “la B. V. sopra la luna, con il Bambino in braccio, il Padre eterno di sopra con molti Angeli e Cherubini che la circondano: opera di molta lode d’autore antico” (l’unica antica di tale soggetto, per inciso, in tutta la città di Vicenza), che il Boschini (1676, p. 95), e poi il Buffetti (1779, p. 9), descrissero nella chiesa francescana di San Biagio, dei padri zoccolanti; soppressa quest’ultima in epoca napoleonica, il dipinto poté passare all’assai vicina chiesa di Santa Croce, e di qui essere venduto nel 1866. Boschini, e poi Buffetti, aggiungevano che esso aveva “dalle parti s. Girolamo, e s. Chiara”; non è possibile sapere se questi fossero in tavole separate ai lati, o dentro lo stesso campo figurativo, nel qual caso le due figure sarebbero state tagliate via, in quanto rovinate. Certo è che se questa fosse una pala d’altare a campo unificato, il suo formato alto e stretto (tanto più quando si integri mentalmente il pezzo mancante dei donatori in basso) la renderebbe piuttosto anomala, non solo all’interno del catalogo degli Zaganelli di quegli anni, ma nel contesto dell’intera pittura del Nord Italia. Non è peraltro facile, oggi, accertare se la centinatura in alto sia originale, o non sia stata fatta, come parrebbe, nel corso di un antico restauro, raschiando via la pellicola cromatica ai lati, per conferire appunto un senso al formato dell’opera. Ciò che si può dire con certezza è che entrambi i fratelli Zaganelli, nell’ultimo decennio del quattrocento e nel primo del secolo successivo, amavano e usavano preferenzialmente quello quasi quadrato dell’ancona. Appare più logico pensare, in altri termini, che quanto oggi si vede sia solo il frammento d’una composizione più vasta; ovvero che si tratti dello scomparto centrale di un trittico, sormontato di sopra dalla figura del Padreterno, secondo preferenze lungamente coltivate a Vicenza (si ricordino i due tondi con l’Annunciazione, cat. 43a e b A 40, e la Santa Caterina, cat.44 A 42, del Marescalco, in origine ai lati e sopra alla Pietà cat.42 A 12). È da chiedersi, perciò, se non abbia potuto un giorno far parte dello stesso complesso il frammento di tavola con una Testa d’angelo n. 212 della Pinacoteca comunale di Ravenna, la cui perfetta coincidenza di stile con il dipinto vicentino è stata affermata da Martini (1959) e da Roli (1965), ed è stata poi concordemente accolta. Secondo il primo studioso, la tavola ravennate sarebbe parte di una perduta Assunzione della Vergine, o di altro soggetto similare; secondo la Zama (1994), invece, esso apparteneva ad una Adorazione dei Magi, perché a destra si intravede il collo di una persona dalla pelle scura, identificato evidentemente come il re Mago nero. Dato il contesto angelico, il fatto che l’orecchio sia comunque bianco (così da far pensare che quella tinta di caffè tostato sul collo sia quella identificativa delle ombre, non del colore della pelle; si veda, del resto, come non sia sostanzialmente diversa, nella parte ombrata, quella dell’angelo vicino), e che fra le due teste si infiltri un raggio di luce, come a Vicenza se ne vedono molti partire dalle teste dei cherubini, la possibile appartenenza originaria alla Immacolata vicentina appare sempre più probabile.
Dopo il rituale riferimento al pittore locale Giovanni Speranza, Corrado Ricci per primo, nel 1911, e Adolfo Venturi nel 1912, in comunicazioni private alla Galleria, suggerirono i nomi di Francesco e Bernardino Zaganelli da Cotignola; due anni dopo, entrambi pubblicarono il dipinto come opera congiunta dei due fratelli, e questo giudizio fu per circa due decenni unanimemente seguito. Ma, riprendendo in esame la questione, Buscaroli (1931) riferì il dipinto al solo Francesco, seguito da Gnudi (1938), Martini (1959), Roli (1965), Paolucci (1966), Colombi Ferretti (1988), Viroli (in La Pinacoteca comunale…, 1988 e 2001), De Marchi (in Da Biduino…, 1990 e 1994) e Faietti (1994), mentre gli altri studiosi rimasero fedeli all’ipotesi delle due mani. In realtà, un elemento che in questo contesto porta notevoli problemi è l’affermazione di De Marchi (in Da Biduino…, 1990, p. 101, e 1994, p. 127), che, dopo essersi strenuamente provato in due testi diversi a distinguere minutamente le mani dei due fratelli, le quali erano parse a Longhi (1940, ed. 1968, p. 145) quelle di “fratelli siamesi” anche dopo il tentativo di disgiunzione operato da Gnudi (1938), reputa sia “un fatto che l’esecuzione di Francesco si celi dietro la doppia firma, mai quella di Bernardino” (1994, p. 127). Con una simile premessa non si vede come sia possibile raccogliere attorno ad una sola opera firmata esclusivamente da Bernardino un catalogo di 36 dipinti (De Marchi, 1994, p. 132). In effetti lo stile non sembra mai consentire una netta distinzione delle mani, come del resto è ovvio per chi, lavorando nell’identica bottega, utilizza il materiale di questa, sia stato approntato dall’uno o dall’altro dei due fratelli: nel trittico di Pavia, ad esempio, pur firmato nello scomparto centrale dal solo Bernardino, è assai arduo credere che le pieghe rigidamente geometriche, a crinali di cristallo, della pianeta di san Nicola di Bari (oggi al Collegio della Guastalla di Monza) non dipendano strettamente da modelli di Francesco, come nella lunetta, concordemente a lui riferita, nella chiesa di San Francesco a Cotignola. Così nel dipinto vicentino in questione, mentre è piuttosto facile dire che la responsabilità prevalente è quella di Francesco Zaganelli (il confronto dello scorcio della testa del Bambino col suo omonimo nella pala oggi a Brera - Reg. Cron. 379 - firmata dal solo Francesco e datata 1505, è in questo senso parlante), non può sfuggire che il modo vagamente costesco in cui i risvolti della veste della Vergine si appoggiano alle sue scarpe è del tutto coerente con quello della Madonna col Bambino e due angeli della Ca’ d’Oro a Venezia, oggi concordemente ritenuta opera del solo Bernardino. Né si vede quale differenza vi sia nell’esecuzione del paesaggio, con le sue rocce tormentate ed erose e le fronde toccate di chicchi di luce, alla nordica, fra l’opera vicentina, quella della Ca’ d’Oro, e la Sacra Famiglia dell’Accademia Carrara di Bergamo, firmata congiuntamente dai due fratelli. Dunque, pur ribadendo che l’ideazione dell’opera spetta prevalentemente a Francesco, ci pare non si possa legittimamente escludere che vi siano parti (fra le quali includeremmo anche il velo bianco che gira sulle spalle della Madonna) in cui ben si leggono pensieri di Bernardino.
Sulla base di quest’opera vicentina si è venuta costruendo, nel tempo, la leggenda di collegamenti diretti e stretti tra Francesco Zaganelli e Bartolomeo Montagna. Questa nasce da un passo di Gnudi (1938, p. 128), che parla di una commistione di elementi veneti e vicentini nella pala di Brera del 1505; e poco oltre (p. 141) specifica che il Putto (cioè Gesù Bambino), in quest’opera, “deriva chiaramente da Bartolomeo Montagna”. Invero, non si vede cosa avrebbe questo bimbo di peculiarmente montagnesco, se non il richiamo ad una comune civiltà prospettica, di radice melozzesca, che assai più facilmente può essere stata tramitata a Francesco Zaganelli da Marco Palmezzano. Tra i più accaniti sostenitori di un interscambio stilistico, in entrambe le direzioni, tra Vicenza e la Romagna, è Franco Barbieri (1962, 1981), anche se l’influenza dello Zaganelli nella città berica si risolverebbe tutta, per lui, sul nome di Giovanni Speranza; Anna Colombi Ferretti (1988, p. 867), ribadendo la somiglianza della pala di Brera, del 1505, firmata da Francesco, con un certo filone di pittura veneta di entroterra, in particolare col Montagna, opina che attorno al 1505 le esperienze, e anche materialmente le strade, dei due fratelli si siano divaricate. La conclusione del discorso, non detta dalla studiosa, è stata tratta da Andrea De Marchi (in Da Biduino…, 1990, pp. 106-107), che afferma specificamente: “verso il 1505 si immagina un viaggio a Vicenza di Francesco, testimoniato dalla Madonna delle rose (conservata nel Museo civico vicentino…)”; ribadita anche nel 1994 (p. 127), essa si basa tuttavia sulla “scoperta […] dipendenza da modelli di Bartolomeo Montagna (come già rilevato da C. Gnudi….)” (p. 134, nota 26), della cui solidità critica s’è già detto.
Più impegnata la lettura di Paolucci (1966, p. 62), per il quale la pala, forse solo accanto a quella del Tirocinio di Amico Aspertini, rappresenta al massimo livello “gli umori irregolari della pittura Padana fra gli Appennini e il Po, nel crescere di questi anni inquieti”; essa versa dunque, come si vede, più sull’anti-classicismo che sul proto-classicismo, al quale rimanderebbero i nomi di Costa e di Aspertini. Lo studioso, del resto, insisteva anche nel vedere nella Madonna centrale il segno di una nordicità quasi neo-gotica. In quest’ultima chiave, la Faietti (1994, p. 40) opina che il solo proto-classicismo (il quale per la verità non rientrava nemmeno nella tastiera di Paolucci, se non in termini brutalmente cronologici, ed è stato piuttosto introdotto nella discussione dalla Colombi Ferretti e da De Marchi) non basta a spiegare la complessità della pala, nella quale sembra attuarsi una versione italianizzata di modelli nordici, da van Eyck a van der Weyden, da Memling a Bouts; a cui forse sarà da aggiungere qualche tratto düreriano. Certo è che se l’immanenza quasi statuina delle figure sul primo piano non può che rimandare alla civiltà prospettica, le nubi violacee sulle specchiature d’acqua del paesaggio, l’ombrosa densità delle fronde, le pieghe di forme spinose, aculeate, sembrano anticipare le più fantasiose diversioni anticlassiche del decennio successivo, mentre inevitabilmente alludono alla conoscenza di incisioni düreriane, come ad esempio la Madonna sulla falce di luna del Kupferstichkabinett di Berlino, del 1500 circa (Bartsch, 30).
Quanto alla datazione, se Venturi (1914) vedeva nell’opera un decadimento rispetto alla pala di Brera del 1499, quasi tutti gli studiosi hanno collocato il dipinto agli inizi del nuovo secolo, precedendo di pochissimo la pala firmata dal solo Francesco a Brera, del 1505; che, a livello di stile, ci sembra giudizio da condividere totalmente.