Giudizio di Paride

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AutoreGregorio Lazzarini
Periodo(Venezia 1655 - Villabona di Rovigo 1730)
Datazione1680
SupportoTela, 183x332
InventarioA 311
Autore della schedaFabrizio Magani

Descrizione figurativa

Il quadro rappresenta il momento esatto in cui Paride, il capo girato alla sua destra, ascolta da Hermes (Mercurio) la consegna che gli ha affidato Zeus (Giove), cioè quella di giudicare quale fra le tre dee Hera (Giunone), Atena (Minerva) e Afrodite (Venere) fosse la più bella, alla quale consegnare la mela d'oro, che tiene racchiusa nella sua mano destra. Davanti a lui le dee si stanno già svestendo per dimostrargli la perfezione dei propri corpi. E le rosee carni nude infatti rappresentano la chiave stilistica del pittore, la cui fama derivò proprio da questo particolare, in cui raggiunge vette di perfezione alla cui base si colloca uno studio assolutamente accurato del disegno. Come si saprà la mela d'oro venne consegnata ad Afrodite e ciò fu causa principale della rovina del regno troiano di Priamo, di cui Paride era figlio.

Descrizione audio

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Provenienza

Carlo Cordellina, Vicenza xxxx; Nicolò Bissari, Vicenza 1829 (Schiavo, 1990, p. 337: “altro quadro rappresentante il Giudizio di Paride del Lazarini”); legato Carlo Vicentini Dal Giglio, Vicenza 1834

Restauri

2012, Egidio Arlango

Inventari

1834: 273. Scuola del Carpioni. Il giudizio di Paride, in tela con cornice nera. Lire 96; [post 1834]: 380. Incerto. Giudizio di Paride, 410; 1854: 410. Incerto. Giudizio di Paride; 1910-1912: 311. Numerazione vecchia: catalogo 1855 n. 37, prima stanza a mattina; 311 catalogo 1912; 311 catalogo 1940; 311 inventario 1950. Forma e incorniciatura: 1954; rettangolare. Dimensioni: catalogo 1912 1.90x3.35; catalogo 1940 1.90x3.35; inventario 1950 1.90x3.35. Materia e colore: tela dipinta ad olio. Descrizione: Il giudizio di Paride. Autore: catalogo 1912 maniera del Padovanino; catalogo 1940 maniera del Padovanino; inventario 1950 affine al Bellucci (W. Arslan); prof. Philips Pouncey del British Museum (comunicazione orale 19. 09.1957), la mano del Bellucci non è molto evidente.

Descrizione tecnica

Il dipinto vede una prima registrazione nella scheda d’ingresso del legato Vicentini Dal Giglio del 1834 e, prima, nel 1829, era menzionato nell’inventario giudiziale pertinente alla quadreria Cordellina (da cui proviene) con l’attribuzione a Gregorio Lazzarini. Il riferimento a uno dei più noti interpreti della cultura figurativa veneziana ispirata al classicismo accademico tra secolo XVII e secolo XVIII (per il quale si veda oggi il profilo di Crosera, 1999 [ma 2001], pp. 39-52) è stato per lungo tempo messo in discussione a favore di una tiepida o decisa paternità di Antonio Bellucci, artista da considerarsi per certi versi l’omologo stilistico di Lazzarini, le cui carriere proseguirono parallele a Venezia in stabile confronto, che si può visualizzare nei contrapposti teleri della chiesa di San Pietro di Castello, realizzati nel 1691, autorevole esemplificazione del successo raggiunto dai due artisti per essere rappresentati in uno dei luoghi più eminenti della vita religiosa cittadina, qual era, appunto, l’allora cattedrale.

Più di recente sono venute le precisazioni di Klara Garas (1981), di Sergio Claut (1985) e dello scrivente (1995 e in Carlo Cordellina…, 1997), che hanno ricondotto alla giusta autografia di Gregorio Lazzarini il pregevole dipinto. Vincenzo da Canal, il primo biografo del maestro veneziano, aveva tracciato con competenza, nella duplice veste di critico e pittore, le coordinate stilistiche dell’artista in riferimento alla maniera dei maestri contemporanei: “… la virtù del pittore consiste maggiormente ne’ nudi; uop’è per ciò, che faccia intorno ad essi il maggiore suo studio, e cerchi di comparirvi più intelligente e corretto”. Quindi diceva Gregorio al N.H. Pietro Diedo, che il Bellucci avrebbe dovuto lavorare di femmine ignude, Antonio Molinari di uomini, ma il Fumiani di figure vestite (1732 [1809], p. LXXII). La Vita di Gregorio Lazzarini consente di riconoscere con sufficiente certezza nel dipinto vicentino l’esemplare fornito dal maestro veneziano nel 1680 al “Sig. Spadone” (leggi Francesco Spadone. Nella Vita [pp. IL-L] si fa riferimento a un secondo esemplare per casa Lin, ma “in piccolo”): “Il primo di lui merito, come dicemmo, consisteva nel lavoro delle femmine nude e pel morbido della carnagione e per esattezza del disegno e per bella idea de’ volti. Lavoro è questo ad uom cristiano ed onesto di grande pericolo; e pur troppo sdrusciolò Gregorio allettato dalla felicità, con cui vi riesciva, e sedotto dalle altrui istanze. Venne richiesto di lavorare un Paride con le tre Dee al naturale, e per soddisfare all’altrui ingiusta domanda fu men onesto di quel che dovesse. Ma poiché non era a farsi ignuda Pallade, siccome Dea per nulla lasciva; così la dipinse in atto di levarsi la camicia per di sopra del capo. Ne sentì poscia rimorso nella cosienza, e persuaso dal confessare tentò ogni via di rimedio; ma chi tenevane il lavoro non ancora sentiva i pungoli del rimorso. E già io credo ch’egli avrà sofferto angustie nell’animo eziandio per altri somiglievoli suoi lavori, come di fatti doveva” (Da Canal, 1732 [1809], pp. LXXI-LXXII).

È comprensibile che a distanza di anni in qualche caso si fosse appannata la memoria di Lazzarini, se l’informazione raccolta dal Da Canal dallo stesso artista alludeva a Pallade anziché a Giunone, che all’evidenza nel quadro è colta nell’atto di svestirsi. La lettura morale dell’episodio riferita dal biografo rivela i caratteri principali del linguaggio artistico di Lazzarini, ovvero quel senso di perfezione fondato sul disegno che appare la via moderna, in quello scorcio finale del seicento, nella cultura dominante del “colorismo”. Il primato dato alla ripresa del nudo, al di là della timidezza d’animo riconosciutagli dal Da Canal, è prova dei fondamenti sostenuti dall’Accademia che anche a Venezia stavano prendendo quota nel passaggio dalla tradizione dell’apprendistato a bottega alla struttura dell’insegnamento artistico fondato su più solidi princìpi, cui lo stesso Lazzarini si andava dedicando.

Il dipinto vicentino è una delle prime manifestazioni di una elaborazione formale che negli anni avrebbe condotto il maestro a bilanciare la figura in rifinite pose accademiche, percorso già ben evidente nella produzione dell’ultimo decennio del secolo.

Bibliografia

Magrini, 1855, p. 58, n. 37 (incerto); Ongaro, 1912, p. 103 (maniera del Padovanino); Arslan, 1934, p. 26 (seguace di Luca Giordano, affine a Bellucci); Fasolo, 1940, p. 177 (maniera del Padovanino); Barbieri, 1952, p. 12 (maniera del Padovanino); Pilo, 1959-1960, p. 30 (Bellucci); Barbieri1, 1962, pp. 39-41 (Bellucci?); Garas, 1981, p. 101; Ballarin An., 1982, p. 343; Schiavo 1982, pp. 42, 44 (Bellucci); Claut, 1985, p. 77; Schiavo2, 1990, pp. 341-343, cat. 6.9 (Bellucci); Barbieri, 1995, p. 108; Magani, 1995, p. 223; Magani, in Carlo Cordellina…, 1997, pp. 259-260, cat. 10; Fossaluzza1, 1998, pp. 38, 49; Villa, in Palazzo Chiericati…, 2004, p. 55.

Esposizioni

Vicenza, 1990, pp. 341-343, cat. 6.9; Vicenza, 1997, pp. 259-260, cat. 10.

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