Invidia
Autore | Angelo Marinali |
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Periodo | (Angarano 1654 - Vicenza 1702) |
Datazione | 1685 - 1690 |
Inventario | S 331 |
Autore della scheda | Simone Guerriero |
Iscrizioni
sul piedistallo VITIUM
Provenienza
Vicenza, Palazzo Cordellina, lato meridionale del cortile, loggia inferiore, sulla porta antistante a quella dello scalone, fino al 1990; in Museo dal 1990
Descrizione tecnica
Il busto, che sul piedistallo in marmo rosso di Verona reca incisa a lettere capitali l’iscrizione VITIVM, rappresenta, come già indicato in via d’ipotesi da Barbieri (in I Tiepolo…, 1990), la personificazione dell’Invidia, uno dei sette vizi capitali. L’identificazione del soggetto raffigurato trova chiaro riscontro con la narrazione di Ovidio (Metamorfosi, II, 768 e seguenti.), secondo cui l’Invidia si ciba di serpenti e ha un corpo logoro, un volto disgustoso, occhi strabici e denti cariati - particolare quest’ultimo che pure ritorna nella scultura in esame - e con la descrizione che poi di essa offrirà Cesare Ripa nella sua Iconologia, quale “donna vecchia, magra, brutta, di color livido, haverà la mammella sinistra nuda, & morsicata da una serpe ”; e ancora “donna vecchia, brutta e pallida, il corpo sia asciutto, con gli occhi biechi, […] sarà scapigliata, & fra i capelli vi saranno mescolati alcune serpi ” (Ripa, …).
Proveniente da Palazzo Cordellina - dove era collocato nella loggia inferiore nel lato meridionale del cortile, sulla porta antistante a quella dello scalone - il busto è stato per lungo tempo assegnato, su proposta di Barbieri (1966; 1972; in I Tiepolo…, 1990), a Giovanni Battista Bendazzoli, nome cui, secondo lo studioso, rinviavano “molte particolarità della fremente realizzazione plastica” (Barbieri, 1966). L’attribuzione dell’opera allo scultore veronese è stata, inoltre, rilanciata più di recente da Magani (1999), secondo il quale “l’allegoria dell’Invidia rappresenterebbe la conferma - quasi celebrativa, vista la datazione sulla fine del nono decennio [del settecento] - di una persistente matrice marinalesca, evocativa di un marcato naturalismo da studio fisiognomico che, per certi versi, si ritrova anche nella ritrattistica del maestro”. Lo stesso Barbieri, in un suo successivo intervento (1995), aveva tuttavia già giustamente osservato che “lo scarmigliato e discinto busto di vecchia parrebbe superare, nella tensione espressionistica, i limiti di Bendazzoli per meglio inserirsi entro precedente ambito veneziano” e, pur in forma prudente e dubitativa, lo studioso avanzava quindi il nome di Giusto Le Court. Se tale proposta attributiva non può essere accolta - mancando nel busto in questione i caratteri precipui del linguaggio stilistico del fiammingo - va tuttavia dato atto a Barbieri di aver colto nel segno anticipando di almeno un secolo la tradizionale cronologia dell’opera che viene quindi più correttamente a inserirsi nella temperie di gusto barocco tardosecentesco di diretta ascendenza lecourtiana. Ne è una riprova la chiara dipendenza della scultura in esame dal busto dell’Invidia scolpito da Le Court attorno al 1661, e ora conservato al Kunsthistorisches Museum, e ancor di più dall’altro busto di analogo soggetto custodito a Ca’ Rezzonico, pure ascrivibile al fiammingo, ma da collocarsi in un momento ben più avanzato dell’attività del maestro per via dell’accentuato naturalismo e del chiaroscuro risentito vicino alla poetica dei tenebrosi (per entrambi si veda Guerriero, 1999, pp. 59-60, ill. 13-14). Paiono quindi derivare da qui quei peculiari elementi di gusto che connotano la scultura in esame, dal chiaroscuro vieppiù drammatico al crudo realismo che si sostanzia nell’attenzione posta nella resa del corpo scheletrico della vecchia, malcelato dalla pelle raggrinzita, o nel segnare i tendini del collo con un forte rilievo, sottolineando enfaticamente il movimento del capo, che pare sollevarsi quasi di scatto. Tale motivo, quasi una sorta di ripresa del volto di sottinsù, sembra poi discendere dalla statua, di un naturalismo altrettanto crudo, raffigurante l’allegoria della Peste, scolpita da Le Court per l’altar maggiore della Salute a Venezia.
L’autore dell’intrigante immagine dell’Invidia conservata al Museo di Vicenza può essere a questo punto individuato, sulla base di precisi riscontri stilistici, in Angelo Marinali, artista originale e dotatissimo, morto prematuramente nel 1702, i cui reali meriti, solo di recente emersi presso la critica, sono stati a lungo ingiustamente ottenebrati dalla fama già in antico creata attorno alla figura del pur valente fratello maggiore Orazio. Ben più di quest’ultimo, impegnato a perpetuare il linguaggio degli Albanese, i cui insegnamenti aveva appresi in Vicenza (in tal senso De Vincenti, 2002, p. 34), Angelo si dimostra sensibile alle novità e agli stimoli che caratterizzavano il panorama della scultura veneziana nella seconda metà del seicento, dominato da Le Court e dai suoi epigoni, in ciò facilitato anche dall’assidua frequentazione della città lagunare motivata dai numerosi incarichi che di lì gli provenivano.
Non è difficile individuare nel corpus dello scultore adeguati termini di confronto per assegnargli la scultura in esame ma può essere senz’altro già sufficiente il raffronto con la statua di Rea, una delle figure scolpite tra il 1685 e il 1686 da Angelo per il giardino del Castello Grimani Donà a Montegalda, solo di recente restituitegli sulla base dei documenti essendo state in passato ritenute opere del fratello Orazio (Saccardo1, 1999, pp. 346-347). Come la personificazione dell’Invidia, scolpita nel monumentale busto di Vicenza, anche la divinità mitologica, rappresentante la madre-terra, raffigurata nella statua di Montegalda, ha le sembianze di una vecchia (vedi Camerlengo, 1999, p. 305, ill. 17): l’artista modella allo stesso modo nelle due sculture non solo il torso rinsecchito, evidenziando le costole affioranti e i seni svuotati e cadenti, ma anche il collo in tensione con le vene e i tendini a fior di pelle e, ancora, il volto scavato dal profilo arcigno. Le due figure sono accomunate, oltre che da una stessa impronta fisionomica, anche da una medesima concezione volumetrica, che porta lo scultore a dilatare e appiattire le forme del torace - elementi che torneranno, rielaborati nella più tarda Santa Maria egiziaca dell’altar maggiore di Santa Corona - e da una eguale, tipica, lavorazione del panneggio scartocciato, dalla particolari ‘ammaccature’ a cucchiaio.
Bibliografia
Barbieri, 1966, p. 229 (Giovanni Battista Bendazzoli); Barbieri, 1972, p. 127 (Giovanni Battista Bendazzoli); Barbieri, 1987, p. (Giovanni Battista Bendazzoli); Barbieri, in I Tiepolo…, 1990, p. 243, cat. 7.19 (Giovanni Battista Bendazzoli); Kamm-Kyburz, 1994, p. 617; (Giovanni Battista Bendazzoli); Barbieri, 1995, pp. 126-127 (ambito veneziano; Giusto Le Court?); Magani, 1999, p. 270 (Giovanni Battista Bendazzoli).
Esposizioni
Vicenza, 1990, p. 243, cat. 7.19