Immacolata Concezione

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AutoreGiambattista Tiepolo
Periodo(Venezia 1696 - Madrid 1770)
Datazione1733
SupportoTela, 386x190
InventarioA 107
Autore della schedaAdriano Mariuz, Gianluca Poldi, Ilaria Mascheroni, Laura Pasetti

La pala, risalente al 1733, era un tempo collocata sul primo altare a destra della chiesa vicentina dell’Aracoeli, proprio dinnanzi all’Estasi di san Francesco di Giambattista Piazzetta (A 105). Nel 1830 venne trasportata nel coro della chiesa e successivamente venduta a Carlo Clemente Barbieri (1849), che la donò al Museo civico nel 1954.

Giambattista Tiepolo dipinge qui uno dei “misteri” della religiosità cattolica, l’Immacolata concezione, cioè la credenza che la Vergine fosse stata concepita senza peccato originale e che, perciò, non dovesse subire la morte corporale.

La Madonna, secondo l’iconografia tradizionale affermatasi in età controriformista, è qui rappresentata mentre appare in cielo, avvolta in una veste candida e in un ampio manto azzurro. Seguendo il racconto dell’Apocalisse (12, 1), l’artista raffigura la Vergine come una giovane donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo. Il suo sguardo, rivolto in basso verso l’umanità, e il suo atteggiamento fiero e altero esprimono il suo distacco dalla natura umana, indicato anche dai gigli reclinati, quasi appassiti, che alcuni realistici e vivaci angioletti stringono tra le mani.

L’immagine, “che si direbbe scolpita dal pennello nella luce, in un supremo esercizio di virtuosismo pittorico” (Mariuz), segna un’evoluzione nella pittura di Tiepolo: dal realistico chiaroscuro dell’arte di Piazzetta, l’artista vira la propria tavolozza cromatica verso i colori limpidi e lucenti di Sebastiano Ricci. Luminosità e brillantezza del colore, qui testimoniati dai riflessi argentei della veste della Madonna, diverranno il tratto distintivo del linguaggio pittorico del maestro veneziano.

Provenienza

dono Carlo Clemente Barbieri, Vicenza 1854 (MCVi, Museo, Doni, b. 1, fasc. “Clemente Carlo Barbieri”, verbale di consegna del 1854, dic. 30: Antonio Magrini, presidente della civica Commissione alle cose patrie di Vicenza, scrive a Clemente Carlo Barbieri comunicando che i sei dipinti da lui donati sono pervenuti al Museo civico, segue l’inventario: “6. La Concezione, pala d’altare del Tiepolo”)

Restauri

1965 (segnalato da Rigon, 1988); 2001, Maria Beatrice Girotto

Inventari

[1873]: Sala, parete della sala che dà ingresso alla stanza a tramontana, 1. Tiepolo Giovanni Battista nato nel 1692, morto nel 1769, fu scolaro del Lazzarini, imitò poi il Piazzetta quindi fece grandi studi in Paolo, consultò le stampe di Alberto Durero; né lasciò in nessun tempo lo studio dal naturale, sia nell’osservare gli accidenti della ombra e della luce e il contrapposto di colori, il più adatto a far colpo; ove gli altri cercavano i colori più vivi, egli a tinte basse e sporche avvicinava la notte, e sapeva con poche note di ben contraposto e schietto colore portare ove gli piaceva nelle sue tele la luce e il sole. La Concezione; 1873a: c. 1, 1. Giovanni Battista Tiepolo nato 1692, morto 1769. La Concezione di Maria vergine; 1902: c. 1, 4 (1). 1. Concezione di Maria vergine, pala. Tela [depennato ad olio]. Alto m 3.80, largo m 1.90. Giambattista Tiepolo. Non buono. Mediocre. Dono del conte Clemente Barbieri; 1907: c. 1, 1 (1). Giambattista Tiepolo, figlio di Domenico capitano di nave, nacque a Venezia nel 1696 e morì a Madrid il 27 marzo 1770; apprese i rudimenti dell’arte da Gregorio Lazzarini, ma si svincolò ben presto dal maestro e dai suoi contemporanei facendo tesoro degli esempi di Paolo Veronese e delle proprie doti originali. Concezione di Maria vergine, pala. Tela, 3.80x1.90. Dono del conte Clemente Barbieri; 1908: 1 (107). Giambattista Tiepolo. Concezione di Maria vergine (pala in tela, 3.80x1.90). Nel 1908 si trova in sala. Nel 1873 si trovava in sala al n. 1. Nel catalogo a stampa del Magrini dell’anno 1855 si trova in sala al n. 74. Pervenne alla Pinacoteca nel 1854 per dono del conte Carlo Clemente Barbieri; 1910-1912: 107 (112) sala XIV. Numerazione vecchia: 1 catalogo Commissione d’inchiesta 1908; 4 catalogo 1902; 1 catalogo 1873; 74 Magrini catalogo a stampa 1855; 107 catalogo 1912; 107 catalogo 1940; 107 inventario 1950. Provenienza: [dono del conte Clemente Barbieri; proviene dalla chiesa di Aracoeli; acquisto del Comune depennato]. Collocazione: sala VI dei settecentisti veneti. Forma e incorniciatura: pala centinata con cornice semplice dorata. Dimensioni: alto m 3.80, largo m 1.90; catalogo 1912 1.90x3.80; catalogo 1940 1.90x3.30; inventario 1950 3.78x1.87. Materia e colore: dipinto ad olio su tela [corretto su tela ad olio]. Conservazione e restauri: la tela è alquanto pulita specialmente nel contorno e il dipinto presenta tracce evidenti di ridipintura; restaurato nessuna ridipintura. Descrizione: [pala centinata depennato] La concezione di Maria vergine; Maria vergine tra le nubi circondata da angeli. Autore: Giovanni Battista Tiepolo; catalogo 1912 Giambattista Tiepolo; catalogo 1940 Giambattista Tiepolo; inventario 1950 Giambattista Tiepolo; W. Arslan, 1956, p. 3, ricorda che la tela fu tolta dalla chiesa dell’Araceli e che il Crocefisso che è al suo posto venne collocato ivi nel 1830. Bibliografia: P. Molmenti, Giambattista Tiepolo. Iconografia: foto Anderson 25034; foto Alinari 13520a; foto Fiorentini (Venezia) CN 1915; foto Fiorentini (Venezia) CN 1916 particolare dei due angeli.

Descrizione tecnica

La pala occupava il primo altare a destra della chiesa dell’Aracoeli di Vicenza, in pendant con l’Estasi di san Francesco di Giambattista Piazzetta. Venne rimossa nel 1830 per essere sostituita da un antico Crocefisso e collocata nel coro, dove rimase fino al 1849, quando venne acquistata dal conte Clemente Carlo Barbieri. Come attesta la documentazione d’archivio (MCVi, Museo, Doni, b. 1, fasc. “Clemente Carlo Barbieri”), il 29 dicembre 1854 il presidente della civica Commissione alle cose patrie, Antonio Magrini, comunicava alla Congregazione municipale il dono, da parte del conte Barbieri, di sei dipinti fra cui, appunto, l’Immacolata di Tiepolo. Sulla vicenda fornisce qualche notizia Gino Fogolari nel 1913: “La fabbriceria della chiesa vicentina d’Aracoeli contendeva ancor pochi anni fa, davanti ai tribunali, la proprietà del dipinto al Museo. Infatti esso stava ancora al principio del secolo passato su un altare di quella chiesa; quando, trattolo di là, un parroco lo vendette illecitamente per una somma irrisoria a un privato, che per fortuna lo donò al Museo”: Clemente Carlo Barbieri, appunto. Delle rivendicazioni della chiesa dell’Aracoeli rimane traccia nell’archivio del Museo, in una carta sciolta che reca un’iscrizione, forse da interpretarsi come la data, il 1903-1904.

Una targa - ancora collocata sulla cimasa dell’altare e riferita all’immagine del Crocefisso - sostituisce l’iscrizione originale riportata dal Faccioli nel 1776, come ha chiarito Mario Saccardo (1977): “LIBERASTI ME DOMINE [...]. MDC[C]XXXIII” Il 1733, dunque, è l’anno di completamento dell’altare e anche quello probabile di allogazione del dipinto. Come per l’Estasi di san Francesco di Piazzetta, si vorrebbe conoscere il nome del committente del dipinto, che ha avuto l’intelligenza critica e la sicurezza di gusto di rivolgersi a un pittore veneziano che stava affermandosi fra i protagonisti indiscussi del panorama artistico lagunare. Da un documento reperito da Saccardo risulta che a sostenere le spese del nuovo altare, oltre che del bel pavimento antistante a riquadri, fu suor Maria Irene, al secolo Francesca Porto, figlia del conte Scipione. Il 30 giugno 1733 ella richiedeva alla badessa ulteriori fondi, cedendo un livello, per completare l’opera intrapresa che era ormai a buon punto. Purtroppo nessun accenno alla pala di Tiepolo che, comunque, doveva essere già stata commissionata e nello stesso anno - data segnata sulla targa - o al massimo all’inizio di quello seguente doveva essere ormai al suo posto. Accende un lampo di curiosità il fatto di apprendere da una nota delle Persone memorabili di Vicenza di Giovanni Da Schio (ms. 3395, ad vocem “Porto”, tav. L) che Irene Porto era nipote di Angela Thiene, figlia di Vincenzo appartenente al ramo “di Francia”, che aveva sposato in prime nozze Giambattista Loschi; e subito il pensiero corre alla decorazione della villa di Nicolò Loschi - figlio di Giambattista - al Biron di Monteviale, che Tiepolo realizzava proprio nel 1734, ma per la quale era in trattative con il committente da tempo. Si è tentati perciò di ipotizzare che sia stata la zia Thiene-Loschi, se non a commissionare il dipinto, perlomeno a indirizzare la nipote nella scelta del prestigioso artista. Anche Mario Saccardo (1985) suggerisce di riconoscere in Irene Porto la committente della pala di Tiepolo.

Del resto, che l’epoca sia la stessa degli affreschi lo conferma anche il raffinato registro stilistico, improntato a una nuova ricerca di semplicità e di timbro neo-veronesiano che permette all’artista di conseguire risultati di cristallina luminosità. A conferma, basti il confronto tra la figura dell’Immacolata e la finta statua della Nobiltà affrescata nel primo pianerottolo della scala al Biron: identici il modulo allungato delle forme, messe in risalto dalle vesti fasciate, la stessa conformazione del volto con le grandi palpebre abbassate; ma anche gli angioletti che colpiscono per il pungente realismo in contrapposto con il deliberato idealismo della Vergine sono della stessa schiera di quelli che s’affollano ai piedi della Liberalità che dispensa doni.

Quanto al soggetto della pala, la presenza di un’immagine dell’Immacolata in una chiesa francescana è quasi d’obbligo - e tanto più in una chiesa di clarisse - essendo stati i francescani i più fervidi sostenitori del culto dell’Immacolata, cioè della credenza che la Vergine era stata concepita fin dalla nascita senza la macchia del peccato originale e, perciò, non soggetta alla morte corporale. Giambattista Tiepolo accoglie l’iconografia tradizionale quale si era definita in età controriformista e che aveva avuto straordinaria diffusione nel corso del seicento, soprattutto in ambiente spagnolo, grazie alle innumerevoli versioni dipinte da Murillo e dalla sua bottega: una figura d’astratta bellezza e di radioso aspetto giovanile, in veste candida e manto azzurro, che plana dal cielo. Il pittore aderisce alla descrizione dell’Apocalisse (12, 1), dove compare la donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo. È la stessa iconografia che, fra l’altro, propone Sebastiano Ricci per il terzo altare sinistro della chiesa di san Vidal, intorno al 1728: la più recente e prestigiosa immagine dell’Immacolata in ambito veneziano, che Tiepolo ha tenuto di certo presente, suggestionato dal bell’effetto della veste bianco-argento in scintillante contrasto con il manto azzurro che si dispiega nell’aria. Altro precedente, per di più vicentino, era costituito dalla pala che Nicola Malinconico aveva da poco dipinto per la chiesa dei teatini, san Gaetano, e che ora è confluita nelle raccolte del Museo civico (cat. 256 A 1230). Ma per l’espressione della Vergine, rifiutando quella più trasfigurata dello sguardo volto al cielo in estatico rapimento della pala di Ricci, l’artista sembra essersi rifatto a un modello diverso. Il volto dall’ovale perfetto, sigillato dalle palpebre abbassate, rivolte all’umanità, echeggia, in una versione più aggraziata e meno matronale, quello della Vergine che appare a san Filippo Neri nella pala di Piazzetta per la chiesa della Fava a Venezia, collocata sull’altare nel 1726. Da parte sua Tiepolo, nella tipologia slanciata, sottolineata dalla tunica aderente, ripropone il taglio delle finte statue di profetesse della galleria del palazzo patriarcale di Udine, che risente dell’ammirazione per le sculture di Corradini. La lieve torsione della figura sembra finalizzata a far risplendere in tutto il suo fulgore d’argento la veste che la avvolge e le conferisce la qualità del giglio.

La sfida che Tiepolo lancia a Piazzetta da un lato, a Ricci dall’altro si risolve nell’evocazione di un’immagine che si direbbe scolpita dal pennello nella luce, in un supremo esercizio di virtuosismo pittorico.

Analisi fisiche

Lo studio in fluorescenza X di una zona brunastra della tela visibilmente priva degli strati pittorici, presso il margine inferiore destro accanto alla cornice, ha permesso di individuare (punti 23 e 24) calcio, ferro e piombo come elementi caratteristici, e tracce di mercurio in uno dei due campioni. È ragionevole ritenere che si tratti di elementi presenti negli strati preparatori del dipinto, come indicherebbe pure la presenza di piombo e mercurio in ogni punto di misura – anche zone scure e non di colore rosso -, e sovente ferro. D’altro canto il fatto che il ferro non sia presente in tutti i punti di misura (non lo è negli azzurri chiari del manto della Vergine, ad esempio, o nei gialli) lascia il dubbio che il ferro dei punti 23 e 24 possa essere dovuto a una pennellata occasionale del circostante pigmento bruno, un terra, su una zona preparata non completamente. Si ipotizza pertanto una base contenente biacca, cinabro e forse poca terra o ocra, e in particolare il calcio letto quasi solo nei due punti non dipinti lascia ipotizzare che la tela grezza sia anzitutto preparata a gesso o anidrite (ma non si può escludere esista carbonato di calcio, dal momento che non si legge in XRF lo zolfo in concomitanza col calcio, come si ha invece per il gesso e per l’anidrite) ma in strato sottile, tanto da essere facilmente schermato in caso di stesure superiori particolarmente spesse. È probabile che sia questa prima preparazione a contenere parti di biacca e forse di ocra o terra, e che sia quindi rivestita di qualche mano di imprimitura realizzata con cinabro, assente o quasi nel margine della tela sopraddetto. L’esistenza, sopra una preparazione chiara, di imprimiture rosse a base di minio, di cinabro o di ocra, a seconda degli autori e dei periodi, non sarebbe prassi nuova, per quanto non comune, essendo testimoniata a partire da alcuni pittori lombardi del primo Cinquecento e praticata almeno fino a Canaletto.

Lo studio dei pigmenti azzurri indica l’uso quasi esclusivo di lapislazzuli, non individuabile con l’analisi XRF ma chiaramente identificato mediante spettrofotometria, per tutto il manto della Vergine, sia per le parti in luce che in ombra, queste ultime talora contenenti parti di azzurrite (almeno nel caso del punto 10, in cui si rileva l’esistenza di rame in traccia). Il cielo è pure costituito da lapislazzuli, con poca azzurrite, forse mescolati.

Il colore azzurro-grigio del globo non presenta all’analisi XRF elementi propri di pigmenti azzurri compatibili con l’epoca di esecuzione dell’opera, salvo il ferro, che, parte riconducibile alla preparazione, parte a eventuali terre adoperate per conferire il tono brunastro di alcune zone, potrebbe riferirsi al blu di Prussia (ferrocianuro ferrico). Il blu di Prussia, sintetizzato accidentalmente da Diesbach intorno al 1704 a Berlino, divenne disponibile per gli artisti dal 1724 e si diffuse rapidamente, grazie al costo contenuto e alla facile reperibilità.

Esclusa quindi grazie all’analisi in fluorescenza X la presenza nel globo ai piedi della Vergine di azzurrite (rame) e smaltino (cobalto e potassio), resta la possibilità che siano stati impiegati lapislazzuli, indaco o blu di Prussia, ma lo spettro di riflettanza, assai basso (tra 5,5% e 8%), con un largo massimo nelle regioni dei verdi-azzurri (con valori di riflettanza maggiori intorno a 520 nm) e decrescente nei rossi, non è assimilabile con certezza ad alcuno di questi, né alla chiara e dominante presenza nei punti studiati di pigmenti bruni o gialli tipici dell’epoca. Una ipotesi è che si tratti di lapislazzuli assai scurito, mescolato forse con nerofumo e altro, tanto da annullare la crescita di riflettanza oltre i 640 nm. Oppure, più plausibilmente, che si tratti proprio di blu di Prussia, tra le sue prime attestazioni nella pittura veneta. La firma spettrale in riflettanza di questo pigmento ha un minimo tra 650 e 750 nm, come è compatibile con il nostro caso, ma un massimo abbastanza netto intorno a 450 nm, non dopo i 500 nm, a meno di ingiallimenti, che tendono a spostare il picco verso lunghezze d’onda maggiori, e di mescolanze con pigmento bianco, che ne allargano il massimo allo stesso modo che nel caso in esame1. Si è provato così a verificare se esista un eccesso di ferro rispetto ad altri punti di misura in cui il ferro non ha ragion d’essere, almeno a giudicare dal colore finale - non i rossi e i bruni, ad esempio, bensì altri azzurri e i bordi della tela privi degli strati pittorici.

Ammettendo che il ferro che si individua a bordo tela, campioni 23 e 24, sia tutto della preparazione e non pennellata fuori margine del bruno circostante, può essere utile un confronto tra questi e i conteggi della fluorescenza caratteristica (riga K alfa) con cui lo si rileva qui e negli azzurri del globo: tale studio, d’altra parte, non indica se non in uno dei due campioni (il 22, con 0,5 conteggi per secondo) conteggi di picco più elevati (e quindi maggior presenza di ferro attribuibile al pigmento blu) rispetto a quelli misurati nei campioni 23 e 24, che sono pari a 0,36 conteggi per secondo, come nel punto 12 e nel 10. Non ha senso in tale caso eseguire i rapporti tra i conteggi del ferro e del piombo, dato che nelle zone della preparazione (punti 23 e 24) è presente in quantità assai modesta, e un confronto tra queste zone e quelle dipinte (21 e 22) del globo sarebbe fuorviante. Una interessante considerazione nasce dall’osservazione che il ferro è presente nelle zone scure dell’ombra del manto e non in quelle chiare; posto allora che l’eventuale ferro contenuto nella preparazione sia schermato allo stesso modo dagli strati pittorici superiori, il fatto di individuarlo nelle zone in ombra potrebbe essere dovuto proprio alla presenza, insieme a lapislazzuli e poca azzurrite, di blu di Prussia. Solo mediante microprelievi e successivi esami al microscopio e chimici, sarà possibile verificare se l’ipotesi dell’esistenza di blu di Prussia sia corretta. Va comunque ricordato che tale pigmento è stato riscontrato, tra le prime attestazioni d’uso, in opere di Canaletto dipinte tra il 1719 e il 1723 e in lavori successivi, e in opere dello stesso Giambattista Tiepolo, come la Salita al Calvario del 1738-40 e i dipinti della Scuola Grande dei Carmini a Venezia (commissionata nel 1739)2.

Non si ha traccia di pigmenti a base di rame per i verdi, usati nel drappo del gruppo di angeli in alto e nelle foglie dei gigli, che risultano esclusivamente realizzati con terra verde.

I gialli adoperati sono probabilmente gialli di piombo, forse litargirio, mentre i rossi paiono costituiti, almeno prevalentemente, a giudicare dai loro spettri di riflettanza, da cinabro, caricato con ferro nelle zone in ombra. A base di terre i bruni, mentre appaiono unicamente costituiti da una mescolanza di biacca e tracce di cinabro gli incarnati, senza uso, o quasi, di terre.

Bibliografia

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Esposizioni

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